(Cass. Pen., sez. V, 14 aprile 2021, n. 13979)
di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Giuliana Costanzo)
“(…) 1. Le doglianze racchiuse nell’unico articolato motivo di ricorso pongono, in primis, una questione di metodo, sostenendo che il Giudice di appello, nel riformare la sentenza in senso sfavorevole all’imputata, avrebbe dovuto fornire una motivazione definita rafforzata o comunque un complesso argomentativo dotato di maggior forza persuasiva rispetto alle giustificazioni adoperate dal primo Giudice, citando in proposito nota giurisprudenza di questa Corte.
Il principio - ovviamente in sè corretto - non si attaglia alla fattispecie in esame, nella quale si discute del delitto di diffamazione tramite mezzo di pubblicità, questione che la Corte d’Appello ha risolto in senso opposto a quanto deciso dal Tribunale, esclusivamente attraverso una differente valutazione giuridica delle frasi in primo grado giudicate espressione del diritto di critica e, quindi, scriminate ex art. 51 c.p..
1.1 In tali ipotesi, secondo recenti pronunzie emesse da questa Corte - alle quali il Collegio intende dare seguito - il Giudice di appello non ha la necessità di offrire una motivazione dotata di una maggiore forza persuasiva, in quanto oggetto del giudizio è una questione squisitamente ed esclusivamente giuridica, non essendovi alcuna diversa valutazione del materiale probatorio riguardo alla quale il Giudice di secondo grado debba spiegare le ragioni del diverso apprezzamento, confrontandosi anche con i motivi posti dal primo Giudice a sostegno dell’opposta decisione, per la semplice ma dirimente ragione che il Giudice di appello ritiene errata la soluzione in diritto adottata in primo grado. (…).
2. In questo senso si dà esito alla doglianza mossa dal ricorrente ma per completare il discorso deve darsi conto del più che solido orientamento giurisprudenziale - che anche in questo caso il Collegio intende seguire - secondo il quale nella specifica materia della diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie. (…).
Spetta, dunque, al Collegio verificare l'esattezza dell’una o dell’altra soluzione in gioco ed allo scopo è necessario riassumere il cuore delle argomentazioni impiegate dal Tribunale per giungere all'assoluzione dell’imputata. (…).
3. Il Collegio ritiene corretta la decisione della Corte di appello, in armonia con i consolidati principi elaborati da questa Corte sul limite della continenza nella forma espositiva che deve essere rispettato, costituendo uno dei presupposti per il riconoscimento dell’esercizio del diritto di critica. L’elaborazione ermeneutica di questa Corte giunge costantemente ad affermare che in tema di diffamazione l’esimente del diritto di critica postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico in quanto non hanno adeguati equivalenti. (…).
Nella fattispecie in esame la definizione della parte civile come essere spregevole è univocamente ed esclusivamente interpretabile come offesa personale diretta a screditare non l’operato professionale del professore, ma, all’evidenza, la persona in sè e per sè; per altro verso il contesto fattuale in cui è avvenuto l’episodio, la lite tra i colleghi in una situazione in cui gli alunni avevano aderito a proteste studentesche contro la riforma Monti della scuola - aspetto sul quale ha insistito la motivazione liberatoria - non è per nulla menzionato nella proposizione ritenuta diffamatoria, nella quale si è fatto unicamente riferimento alla discussione avvenuta tra l’imputata e la parte civile.
3.1 Quanto all’accusa di effettuare manipolazioni psicologiche nei confronti degli studenti, le parole usate risultano del tutto esorbitanti rispetto alla ritenuta finalità di disapprovazione dei metodi di insegnamento adottati dal collega, tema peraltro neppure ben chiarito all’interno delle frasi pubblicate su facebook, in cui l’espressione è rimasta genericamente formulata, non avendo alcun riferimento a circostanze di fatto determinate, e per questo è stata condivisibilmente giudicata diffamatoria dalla Corte territoriale, poichè idonea a ledere la dignità professionale dell’insegnante. (…). Il senso della parola in sè e nel contesto fattuale di riferimento, non può che essere quello di attribuire all’insegnante, per ragioni neppure manifestate, una volontà di condizionamento/controllo delle coscienze dei suoi studenti, volontà che appare, all’evidenza, contraria agli scopi formativi ed educativi che l’ordinamento attribuisce all’insegnamento.
4. Resta da esaminare il profilo di ricorso nel quale si è censurata la motivazione della Corte di Appello per non aver valutato le richieste subordinate fatte dalla difesa della giudicabile in primo grado e non riproposte in ragione dell’accoglimento della principale istanza di assoluzione ex art. 51 c.p.
Quanto alla sussistenza dell’aggravante del mezzo di pubblicità occorre rilevare che la stessa difesa nell’atto di ricorso ha mostrato di conoscere, citandola, la giurisprudenza di questa Corte - alla quale il Collegio intende dar seguito - secondo la quale la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poichè la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone; tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico. (…).
4.1 Quanto alla censura inerente il riconoscimento e la liquidazione del danno morale (…) La giustificazione in proposito assunta dal Giudice del merito non è censurabile in questa sede, poichè in tema di liquidazione del danno non patrimoniale la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria. (…)”.
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