Brevissime osservazioni critiche a Cass. Civ., Sez. I, ord. 14 agosto 2020, n. 17183.
(A cura di Remo Trezza)

Con ordinanza n. 17183, depositata il 14 agosto 2020, la Prima Sezione Civile ha ulteriormente precisato i limiti entro cui il figlio maggiorenne “convivente” può ottenere il mantenimento a carico dei propri genitori.
Il Collegio ha puntualizzato, in particolare, che, ultimato il prescelto percorso formativo (scuola secondaria, facoltà universitaria, corso di formazione professionale), il maggiorenne debba adoperarsi per rendersi autonomo economicamente. A tal fine, egli è tenuto ad impegnarsi razionalmente e attivamente per trovare un’occupazione, tenendo conto delle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni.
Segnatamente, alla luce del principio di auto-responsabilità che permea l’ordinamento giuridico e scandisce i doveri del soggetto maggiore d’età, costui non può ostinarsi e indugiare nell’attesa di reperire il lavoro reputato consono alle sue aspettative, non essendogli consentito di fare abusivo affidamento sul supposto obbligo dei suoi genitori di adattarsi a svolgere qualsiasi attività pur di sostentarlo ad oltranza nella realizzazione (talvolta velleitaria) di desideri ed ambizioni personali.
Una simile decisione non va esente da critiche.
La Cassazione, evidentemente, avrà perso completamente di vista l’art. 147 c.c., laddove si impone “ai coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”.
Avendo la Suprema Corte imposto il dovere di trovare un’occupazione (che dovrebbe prima essere garantita in quanto diritto – artt. 1 e 4 Cost –), addirittura spingendosi a valutazioni personalissime (come quella di scegliere l’occupazione più consona ed idonea alla propria inclinazione naturale) e, pertanto, non assolutamente improntate ad alcun tenore giuridico (come, ancora, quella di giustificare il “ridimensionamento”, se del caso, delle aspirazioni dei figli, magari dopo che questi ultimi abbiano sacrificato la loro vita nel cercare di raggiungere la loro tutelata aspirazione ex art. 147 c.c.), ha finito per sminuire il principio di autodeterminazione della prole che, rispetto a quello di auto-responsabilità, in alcuni casi, è prevalente.
La pronuncia risulta essere al quanto criptica nella parte in cui afferma che il figlio maggiorenne non possa “ostinarsi ed indugiare nell’attesa di reperire il lavoro reputato consono alle sue aspettative”.
Anche qui, probabilmente, la Cassazione non ha tenuto in debito conto il combinato disposto degli artt. 147 e 315 bis c.c., disposizione quest’ultima che enuclea i diritti dei figli (comma 1: mantenimento, educazione, istruzione e assistenza morale, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni) e i loro doveri (comma 4: contribuzione, in relazione alle proprie capacità, sostanze e reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa).
È con tale intersezione normativa che il rapporto genitori-figli (sia minori di età che maggiorenni) viene ad intendersi come un rapporto giuridico inter-connesso, ovvero un insieme di situazioni giuridiche soggettive complesse e correlate che, come tali, soggiacciono al binomio diritto-dovere.
È altrettanto evidente che la Suprema Corte, laddove abbia affermato che i figli maggiorenni non debbano fare “abusivo affidamento” sull’obbligo dei suoi genitori di adattarsi a svolgere qualsiasi attività pur di sostentarlo ad oltranza nella realizzazione (talvolta velleitaria) di desideri ed ambizioni personali, abbia espresso una valutazione giudiziale soggettiva e non ancorata a criteri oggettivi.
A tal punto, viene da chiedersi se l’aspirazione e l’inclinazione naturale dei figli debbano considerarsi recessivi rispetto alla contribuzione economica familiare che pur su di essi incombe ex art. 315 bis, co. 4, c.c.
Se questa pronuncia ha cercato di riflettere sulla figura dei c.d. “bamboccioni”, magari tentando di proporre una soluzione a tale questione, ha, allo stesso tempo, messo in luce una vera e propria “problematica strutturale” che affligge, ormai da molti anni, il nostro Paese: la mancanza di stima nelle giovani leve.
È facile per un Giudice addivenire ad una simile decisione. La sua “aspirazione” è stata raggiunta. Il problema è di chi, invece, un’aspirazione vorrebbe raggiungerla, ma il sistema educativo, formativo, concorsuale, nonché una simile argomentazione, non lo consentano affatto.
In definitiva, e per essere in sintonia con quanto detto fin qui, la Corte avrebbe dovuto contemperare diversamente le contrapposte esigenze. Chissà, forse, alla luce del combinato disposto anzidetto, vi potrà essere un revirement più oculato.
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