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SGS - Redazione

Presunzione di innocenza: la condanna ai fini civili non deve alludere alla responsabilità penale


@ Image credits: Council of Europe




OSSERVATORIO CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO


A cura di Emanuele Sylos Labini


Nell'ottica di sviluppare un contenuto che possa essere di ausilio per studiosi e professionisti, a partire dal mese di ottobre 2020, verrà pubblicato con cadenza regolare l'Osservatorio sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, la cui influenza diretta sugli orientamenti degli ordinamenti nazionali pare destinata sempre più ad aumentare.

La rubrica contiene una rassegna di stralci di pronunce accuratamente selezionate secondo la rilevanza delle questioni trattate, corredate da un breve riferimento alla massima, nonché all'indicazione dell'articolo della Convenzione violato.

Per i casi che non riguardano il nostro ordinamento, in assenza di una traduzione ufficiale in lingua italiana, si è preferito procedere ad un breve riassunto della quaestio in analisi, a cui segue il riferimento diretto al link ove è presente la pronuncia in lingua inglese.




Presunzione di innocenza: la condanna ai fini civili non deve alludere alla responsabilità penale.


Corte EDU, sez. III, 20 ottobre 2020, Ricorso n. 23349/17, Pasquini c. San Marino (n. 2)

(sentenza in lingua: http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-205166)


Massima

Viola il diritto alla presunzione di innocenza sancito nell’art. 6 § 2 CEDU, la condanna risarcitoria emessa, a fini civili, dal giudice penale che utilizzi espressioni evocative della responsabilità dell’imputato per i reati originariamente contestati e poi dichiarati prescritti.


Caso

La vicenda giudiziaria origina dalle doglianze avanzate da un cittadino della Repubblica di San Marino il quale, imputato per alcuni fatti di appropriazione indebita, lamentava il mancato rispetto dell’art. 6 § 2 CEDU. In particolare, il ricorrente allegava l’avvenuta violazione del diritto a esser considerati innocenti sino a quando la colpevolezza non sia stata legalmente accertata, in virtù del fatto che il giudice d’appello penale, nonostante l’intervenuta prescrizione dei reati contestati, avesse, sulla base di una nuova disposizione (art. 196 bis del codice di procedura penale), condannato lo stesso al pagamento delle spese civili evocando una responsabilità penale per i fatti originariamente contestati.

La Corte rammenta dapprima i principi generali derivanti dall’art. 6 § 2 CEDU. Tale disposizione si configura, anzitutto, quale garanzia procedurale da cui deriva, fra l’altro, il rispetto di alcuni criteri in materia di onere della prova, di presunzioni legali di fatto e di diritto, di privilegio contro l’auto-incriminazione, di pubblicità pre-dibattimentale e di utilizzo di espressioni di colpevolezza. Ma, specificano i giudici, l’art. 6 § 2 CEDU presenta anche un secondo aspetto: attraverso questa disposizione, infatti, si intendono anche proteggere i soggetti che siano stati assolti da un’accusa penale, o per i quali il processo sia stato interrotto o sia terminato, dall’essere trattati, da parte dei pubblici ufficiali o delle autorità in genere, come se fossero, nei fatti, colpevoli dei reati contestatigli. Si richiamano, in tal senso, le conclusioni raggiunte dalla Grande Camera nel caso Allen, secondo cui, appunto, la presunzione di innocenza è funzionale a garantire il rispetto di tale status anche quando il processo si sia già concluso o si ponga in un procedimento successivo, collegato al precedente.

Tale secondo aspetto dell’art. 6 § 2 CEDU entra in gioco in tutti i casi in cui il procedimento penale si concluda con un esito diverso dalla condanna. In tali ipotesi, è necessario che vengano apprestate garanzie tali da non rendere illusorie e teoriche le tutele processuali assicurate nella Convenzione.

Così, secondo i giudici europei, non sarebbe contrario all’art. 6 § 2 CEDU, nonostante l’interruzione del processo penale, l’eventuale condanna risarcitoria intervenuta a carico del medesimo soggetto ai fini civili. Ciò che importa, in tal caso, è che la decisione sul risarcimento non contenga dichiarazioni o espressioni che, considerate nel contesto complessivo in cui vengono enunciate, facciano riferimento alla responsabilità penale dell’imputato per i fatti contestati nel processo penale interrotto o terminato. Ciò che viene in rilievo, in tutti i casi, è la reputazione della persona imputata e il modo in cui la stessa viene percepita dal pubblico.

Riportando tali principi al caso di specie, la Corte ritiene che la formulazione utilizzata dal giudice d’appello penale per decidere sul risarcimento civile debba essere interpretata come espressiva dell’addebito della responsabilità penale in capo al ricorrente. E ciò, considerando anche il contesto complessivo e, cioè, che: 1) la causa civile è stata esaminata all’interno del procedimento penale; 2) la statuizione civile riguardava gli stessi fatti imputati al ricorrente nel corso del procedimento penale; 3) il giudice di appello ha confermato la ricostruzione dei fatti operata nella sentenza di primo grado, si è basato sulle medesime prove e ha quantificato il risarcimento nel medesimo ammontare, spingendosi altresì a ribadire, oltre all’actus reus, anche la presenza della mens rea, del dolo del ricorrente.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ritiene che il giudice d’appello, nel decidere in merito al risarcimento, si sia spinto oltre, emettendo una decisione che equivale a una inequivocabile dichiarazione di colpevolezza in capo al ricorrente Ne consegue che la formulazione utilizzata dal giudice penale d’appello ha violato il diritto della ricorrente alla presunzione di innocenza e, quindi, l’articolo 6 § 2 CEDU.


(A cura di Giuliana Costanzo)

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