(Cassazione penale, sez. VI, 3 maggio 2021, n. 16786)
di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Giuliana Costanzo)
“(…) 2. Passando a trattare gli addebiti di peculato, si rende opportuna una preliminare precisazione di ordine generale (…).
Va detto che la qualità di pubblico ufficiale del notaio non vale a conferire natura pubblica a qualsiasi somma di cui abbia la disponibilità in ragione della sua professione, potendo egli svolgere anche attività di tipo privatistico. (…).
Giova tenere a mente, tuttavia, che, in tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto comunque di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (…).
Rispetto alle somme destinate agli adempimenti fiscali collegati agli atti da lui stipulati, non vi può esser dubbio, allora, che si tratti di cose da lui possedute per ragione dell’ufficio
(…) 3. Tanto precisato in via generale, il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente sostiene di non aver agito con dolo, sol perché, in caso d’insufficienza di fondi nel conto bancario dedicato, egli s’impegnava con i funzionari erariali a pagare alla ricezione dell’avviso di cui all’art. 3-ter, d. lgs. 463 del 1997, e deduce altresì che la sentenza impugnata abbia omesso di motivare sul punto, non ha il benché minimo fondamento.
Un siffatto “impegno”, a prescindere dalla dubbia vincolatività del medesimo, non fa venir meno la pregressa, consapevole e volontaria destinazione delle somme ricevute dalla clientela a scopi diversi da quello per il quale gli erano state consegnate. L’agente che riscuote denaro pubblico non può utilizzarlo per fini propri, assumendo l’obbligo di erogare all’amministrazione l’equivalente o scambiarlo con titoli di credito di sua pertinenza (…).
E la Corte di appello ha espressamente e compiutamente risposto al relativo motivo di gravame, correttamente evidenziando come, ai fini della sussistenza del reato, sia sufficiente la diversa destinazione di quelle somme, incompatibile con le ragioni giustificative della disponibilità, nonché rilevando come, nello specifico, vi fosse in atti la dimostrazione dell’utilizzo delle stesse, da parte dell’imputato, per scopi esclusivamente personali. (…).
4. È ellittico, invece, e perciò merita censura, il ragionamento con il quale la sentenza impugnata giustifica la condanna per il peculato di cui al capo 3) della rubrica, relativo al tardivo versamento dell’imposta sostitutiva di cui alla legge n. 266 del 2005.
Secondo la Corte distrettuale, infatti, il pagamento tardivo di un’imposta da parte del notaio varrebbe di per sé a configurare il reato.
Sebbene una tale lettura trovi riscontro in alcuni precedenti di legittimità (…) ritiene il Collegio che essa non possa essere condivisa, rischiando di aprire il varco a non accettabili semplificazioni probatorie. Tali pronunce, infatti, in estrema sintesi, si fondano sull’assunto per cui, se il versamento da parte del notaio di una somma da lui dovuta quale sostituto o responsabile d’imposta, e per tal ragione corrispostagli dal terzo debitore, non avviene entro il termine normativamente stabilito o, comunque, entro un ragionevole ritardo, ciò comporta un’indebita sottrazione di dette somme all’Erario e, dunque, una inversione del titolo del possesso in senso dominicale da parte del notaio possessore.
In realtà, l’elemento fondamentale per la sussistenza del peculato è, giust’appunto, l’interversione del possesso, che si realizza allorquando l’agente pubblico compia un atto di dominio sulla cosa, con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria: volontà, quest’ultima, che però, in rerum natura, non sempre e non necessariamente può essere ricollegata alla mancata osservanza di un termine, ben potendo tale situazione essere compatibile anche con l’assenza, da parte dell’agente, dell’intenzione di comportarsi quale proprietario della cosa posseduta, quand’anche si tratti di quella fungibile per eccellenza, qual è il danaro.
Ritiene, perciò, il Collegio che si debba dar seguito al principio (…) secondo cui, in tema di peculato, l’appropriazione del denaro riscosso per conto di un ente pubblico si realizza non già per effetto del mero ritardo nel versamento, bensì allorquando si realizzi la certa interversione del titolo del possesso (…).
Non di meno, nel singolo caso specifico, il mancato versamento di una somma alla prevista scadenza ben può costituire indizio del sopravvenuto atteggiamento psicologico uti dominus dell’agente verso la stessa e, secondo le ordinarie regole sul ragionamento probatorio di cui all’art. 192, cod. proc. pen., condurre ad un giudizio di sussistenza del reato: ma si tratta di questione da risolvere sul piano della prova, evitando di ricorrere a scivolose semplificazioni formaliste.
È questo il compito cui dev’essere chiamata la Corte di appello, alla quale debbono perciò essere restituiti gli atti sul punto, affinché spieghi compiutamente se e per quale ragione debba ritenersi che il ritardo nel versamento delle somme di cui al capo 3) da parte dell’imputato sia stato dovuto all’utilizzo delle stesse per ragioni personali o, comunque, diverse da quella per la quale le aveva ricevute.
(…) 5. Ad analogo esito, seppur per diversa ragione, deve pervenirsi con riferimento ai fatti di cui ai capi 4) e 5) dell’imputazione, oggetto dei corrispondenti motivi di ricorso.
In entrambi i casi, si tratta dell’omessa restituzione al cliente, da parte del notaio, delle maggiori somme fattesi consegnare rispetto all’ammontare dell’imposta da versare e da lui autoliquidata (…).
Con riferimento ad ambedue gli episodi, tuttavia, la sentenza ha del tutto omesso di esaminare un profilo invece decisivo ai fini dell’esatta qualificazione giuridica del fatto: quello delle modalità attraverso le quali il notaio si è fatto consegnare tali somme e, dunque, ne è venuto in possesso.
Per giurisprudenza di legittimità consolidata, infatti, se l’agente pubblico, attraverso la propria condotta consapevolmente mendace, ottenga l’indebita erogazione del denaro da parte del soggetto cui compete l’adozione dell’atto dispositivo, non si versa in un’ipotesi di peculato, bensì di truffa aggravata dalla violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione.
Dirimente, a tal fine, è il rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra: nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a dissimulare l’illecita appropriazione, da parte dell’agente pubblico, del denaro o della res di cui già aveva la legittima disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato; laddove, invece, la condotta fraudolenta rappresenti lo strumento che ha permesso a costui di conseguire il possesso di tali cose altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata (…).
Tale momento essenziale per la correttezza giuridica della decisione è rimasto, dunque, completamente inesplorato da parte della Corte territoriale, quanto meno per quanto è dato apprendere dalla motivazione della sentenza (…).”.
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