(Cass. Civ., Sez. III, 16 Aprile 2021, n. 10203)
di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Ilaria Marrone)
“L'Amministrazione ricorrente, in sintesi, imputa al Tribunale di avere erroneamente applicato la norma a regime di cui all'art. 35 ter della legge n. 354/1975, e del relativo termine di decadenza previsto al comma 3 (mesi sei dalla cessazione dello stato di detenzione), anziché la norma transitoria di cui all'art. 2 del DL n. 92/2014 ed il termine di decadenza previsto dal comma 1 (mesi sei decorrenti dalla data di entrata in vigore del provvedimento: 28.6.2014). Il motivo è infondato. (…) Orbene la norma transitoria espressamente disciplinata nell'art. 2, comma 1, del Decreto legge n. 92/2014 prescrive che "Coloro che, alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge, hanno cessato di espiare la pena detentiva o non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere, possono proporre l'azione di cui all'articolo 35-ter, comma 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354, entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla stessa data.". Dunque la norma prevede due condizioni alternative in cui, alla data del 28 giugno 2014, poteva versare il soggetto che, durante la restrizione in carcere, avesse subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali: a) definitiva espiazione della pena detentiva; b) cessazione dello stato di "custodia cautelare in carcere". Escluso che nella fattispecie ricorra l'ipotesi sub lett. b), non essendo stato riferito, né essendo dato conoscere, se il (…) sia stato sottoposto alla misura coercitiva della custodia cautelare in carcere ex art. 280 c.p.p., occorre esaminare - alla stregua della "ratio legis" - se il Legislatore riferendosi alla espiazione della pena detentiva abbia inteso riferirsi alla condizione detentiva in carcere o, invece, all'intera durata della pena detentiva irrogata con la sentenza di condanna. In prima approssimazione può convenirsi nel ritenere che "la normativa intertemporale dettata dall'art. 2, disciplinando la materia della decadenza, fa inequivocabilmente riferimento, sia nel primo che nel secondo comma, a detenzioni degradanti ed inumane già conclusesi (e quindi anteriori) al momento dell'entrata in vigore della legge" (cfr. Corte cass. S. U., Sentenza n. 11018 del 08/05/2018), rimanendo pur tuttavia da chiarire, poi, se la "conclusione" debba intendersi riferita alla cessazione della situazione degradante o, invece, dello stato di restrizione in carcere "tout court", ossia della intera permanenza carceraria indipendentemente dai periodi in cui possano essersi verificate situazioni degradanti. Utili elementi interpretativi possono desumersi dalle disposizioni dell'art. 35 ter dell'Ordinamento penitenziario, introdotto dall'art. 1 del DL n. 92/2014 conv. in legge n. 117/2014, da cui emerge evidente la "ratio legis" di individuare quale criterio regolatore della competenza giurisdizionale tra l'Ufficio del magistrato di sorveglianza ed il Tribunale in sede civile (in ordine alla adozione dei provvedimenti compensativi ed indennitari del pregiudizio subito in conseguenza del trattamento degradante), quello della persistenza del regime detentivo o della completa cessazione dello stesso. In sostanza, fintantochè il soggetto deve scontare la "pena detentiva", va ravvisata la competenza del magistrato di sorveglianza (che potrà, secondo le diverse condizioni, o ristorare il pregiudizio mediante la concessione di misure compensative, attraverso la riduzione percentuale della residua durata della pena detentiva, ovvero, qualora ciò risulti impraticabile, mediante la corresponsione di un importo monetario a titolo di indennizzo, commisurato alla durata del trattamento degradante: commi 1 e 2); in tutti gli altri casi, in cui alla custodia cautelare in carcere non sia conseguita la condanna a pena detentiva, o il condannato abbia "terminato di espiare la pena detentiva in carcere", la competenza all'applicazione della misura indennitaria pecuniaria è devoluta al Tribunale ordinario in sede civile (comma 3). Tale criterio generale, dettato ai fini del riparto di competenza - e non anche al fine della individuazione della situazione legittimante la richiesta di ristoro del pregiudizio, da cui inizia a decorrere il termine di decadenza - viene a trovare, peraltro, conferma nella seconda parte della disposizione del terzo comma dell'art. 35 ter, che disciplinando la competenza del Tribunale in sede civile, e proprio in considerazione del presupposto della cessazione dello stato detentivo e quindi del venire meno della "materia" propria del magistrato di sorveglianza, ha inteso fissare un termine di decadenza, stabilendo, a regime, che "L'azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere". Quindi, finché perdura lo stato detentivo (anche non carcerario) la competenza alla liquidazione del ristoro spetta al magistrato di sorveglianza, e non sono previsti termini di decadenza; cessato il predetto stato detentivo, il danneggiato che non abbia richiesto il ristoro al magistrato di sorveglianza, può rivolgersi al Tribunale, ma entro il termine di decadenza di sei mesi. Orbene se i più recenti arresti della giurisprudenza di questa Corte penale e civile appaiono convergenti nell'escludere, tra le condizioni dell'azione di ristoro, l'"attualità del pregiudizio", ossia una situazione degradante "in atto" (cfr. Corte cass. pen. Sez. 1, Sentenza n. 19674 del 29/03/2017 secondo cui l'art. 35 ter, ove richiama l'art. 69 comma 6, lett. b, dell'Ordinamento penitenziario "non si riferisce al presupposto della necessaria attualità del pregiudizio che rileva, invece, ai fini del diverso rimedio del reclamo, previsto dal citato art. 69 la cui finalità è quella di inibire la prosecuzione della violazione del diritto individuale da parte dell'amministrazione penitenziaria", dovendo, comunque, provvedersi al ristoro tutte le volte in cui il pregiudizio non è stato eliminato attraverso una forma di riparazione, anche se la causa che lo ha prodotto si sia temporalmente verificata nel passato; Corte cass. civ. Sez. 3 - , Sentenza n. 22169 del 05/09/2019), osserva il Collegio che, quanto, invece, alla condizione di attualità dello "stato detentivo" la Corte costituzionale (…) ha ritenuto che "I commi 2 e 3 distinguono la competenza a provvedere sulla richiesta di ristoro economico a seconda che l'interessato sia o no detenuto: nel primo è competente il magistrato di sorveglianza, nel secondo il tribunale civile (…) L'apparente discrasia tra stato detentivo (mero) e stato detentivo "in carcere" va ricomposta nel senso che le (apparentemente) diverse formule lessicali utilizzate, nello stesso terzo comma (rispettivamente ai fini del riparto di competenza e della fissazione del termine di decadenza per l'azione avanti il Tribunale), non denotano l'intenzione del Legislatore di identificare situazioni distinte, non venendo in rilievo alcuna valida ragione per ricollegare alla diversa "modalità esecutiva" della pena detentiva (carceraria od alternativa) un differente presupposto applicativo, rispettivamente, del criterio regolatore della competenza (cessazione dello stato di carcerazione) e della decorrenza del termine di decadenza per esperire l'azione riparatoria (cessazione dello stato di detenzione), tenuto conto della unitarietà dello scopo perseguito con l'intervento legislativo del 2014, costituendo la norma di cui all'art. 35 ter nell'ordinamento penitenziario la risposta del Legislatore alla sollecitazione proveniente dalla sentenza della Corte europea dei 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, e, successivamente, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 279 del 2013, affinché fosse garantita una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU) derivate dal sovraffollamento carcerario in Italia (…). Dal che si perviene ad individuare una demarcazione essenziale, ai fini tanto del riparto di competenza quanto della decorrenza del termine di decadenza, tra il prima ed il dopo della intera espiazione della pena detentiva, assumendo rilevanza, allora, la durata della modalità esecutiva della "restrizione in carcere", non ai fini della tempestività dell'esercizio del diritto, ma esclusivamente quale condizione necessaria perché possa verificarsi il pregiudizio al cui ristoro la legge intende provvedere: potendo subire il trattamento disumano, per inadeguatezza delle strutture e dell'organizzazione dell'Amministrazione statale soltanto il condannato che esegua la pena detentiva costretto in carcere. Pertanto, debbono ritenersi equivalenti le espressioni riferentisi alla "cessazione dello stato di detenzione" ed alla "cessazione della espiazione della pena detentiva" contenute, rispettivamente, nella disposizione del comma 3, dell'art. 35 ter ord. penit., ed in quella dell'art. 2, comma 1, del DL n. 92/2014, in quanto entrambe coincidenti con il "fine pena", ossia con l'esaurimento della esecuzione della pena detentiva, indipendentemente dalle modalità di esecuzione della stessa. (…) Su tale scia si collocano anche i più recenti arresti della giurisprudenza penale e civile di legittimità, secondo i quali, dalla disciplina complessiva introdotta dal DL n. 92/2014 "emerge, pertanto, un favor del legislatore all'attuazione di una tutela piena, efficace ed immediata per tutte le categorie di detenuti, possibilmente attraverso il rimedio tipico della riduzione di pena (in luogo dell'indennizzo monetario previsto solo in via subordinata)" (…), non potendo pertanto distinguersi nell'ambito del medesimo stato detentivo, in ordine al rimedio riparatorio ottenibile, tra il detenuto ristretto in carcere ed il detenuto (che abbia subito pregiudizio per trattamento degradante durante la detenzione carceraria, cautelare o definitiva) cui successivamente è stata applicata una "misura alternativa", quale l'affidamento in prova al servizio sociale (…), il regime di semilibertà (…), o ancora a colui che sia sottoposto a detenzione domiciliare (…), in quanto le misure alternative non costituiscono istituti giuridici distinti dalla esecuzione della pena nelle forme della detenzione intramuraria, ma forme attraverso le quali la pena detentiva può essere eseguita, sicché è necessario leggere congiuntamente i commi 1 e 3 dell'art. 35 ter, ritenendo che la nozione di pena detentiva in carcere comprenda le misure alternative, e, dunque perdurando lo stato detentivo fino alla definitiva espiazione della pena, il Giudice competente a delibare l'istanza del detenuto è il magistrato di sorveglianza, il quale potrà provvedere riconoscendo la riparazione in forma specifica - con riferimento alla porzione di pena scontata in carcere riferibile al medesimo titolo esecutivo - ovvero disponendo il ristoro pecuniario ove "medio tempore" il ricorrente abbia interamente espiato detta pena (conf. Corte cass. civ. Sez. 3 , Sentenza n. 22169 del 05/09/2019)”.
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