“In nome del popolo italiano…” La gran parte degli studenti di giurisprudenza ha sognato, almeno una volta, di pronunciare queste parole. Si tratta, com’è noto, della formula iniziale delle sentenze, pronunciata dai magistrati della nostra Repubblica in apertura delle decisioni che, per l’appunto, sono emanate in nome del popolo. Una frase densa di significato, non soltanto retorico, ma sostanziale e dall’indubbia efficacia, condensate nell’illuminata disposizione costituzionale sancita nell’art. 101 della Carta Fondamentale. Appare chiaro a tutti che, se a pronunciarle è uno studente, esse non hanno altro valore se non quello delle parole stesse: non essendo stato investito del potere di farlo, il comune cittadino non può emettere sentenze. C’è bisogno di un atto di investitura del potere da parte dell’organo statale a ciò deputato (oltre alla vittoria del concorso, sia chiaro). L’assunzione di una funzione pubblica, quindi, avviene a seguito di un atto di investitura del potere. Ma cosa avviene quando tale atto formale manca o è viziato? La problematica, ben nota agli amministrativisti (e anche agli studenti) è quella conosciuta come “funzionario di fatto”.
In sostanza, il problema si pone dal punto di vista degli effetti degli atti prodotti dal soggetto che solo di fatto esercita tali funzioni. Com’è noto, la figura è di creazione dottrinale “trova vita solo allorquando si tratti di esercizio di funzioni essenziali e/o indifferibili, che per loro natura riguardino i terzi con efficacia immediata e diretta”(CdS, sez. IV, 20 maggio 1999 n. 853). Ovviamente si tratta di una questione complessa, spesso oggetto di prove concorsuali. Ma la questione non è nuova nell’ambito del diritto. Già i giuristi romani hanno affrontato la medesima problematica, soffermandosi, in particolare sull’efficacia degli atti emanati da soggetti il cui atto di investitura del potere risultava essere viziato. Nota è, infatti, la situazione di Barbaro Filippo, uomo di condizione servile fuggito dal padrone (servus fugitivus) che, recatosi a Roma, riuscì a farsi eleggere pretore. Bene, posto che l’elezione sarebbe stata illegittima, già Ulpiano e Pomponio avrebbero discusso della sorte degli atti da questi adottati (V. D. 1.14.3), giungendo a differenti ricostruzioni.
Sembra evidente, quindi, come anche in questo caso la radice romanistica del problema possa aiutare l’interprete odierno ad orientarsi nel mare magnum delle possibili soluzioni.
Per ulteriori approfondimenti, si consiglia la lettura di N. Rampazzo, Quasi praetor non fuit, Studi sulle elezioni magistratuali in Roma repubblicana tra regola ed eccezione, Napoli 2009.
Dario Annunziata
Viceprefetto Aggiunto
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