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Ergastolo ostativo: verso un cambiamento epocale?



La legge 354 del 26 luglio 1975 regolamenta l’ordinamento penitenziario nonché le misure privative e limitative della libertà personale.

La citata normativa, dalla sua introduzione, ha subito una serie di modifiche ed innovazioni, rese necessarie sia dall’evoluzione della società sia dalla rilevanza assunta nel diritto domestico dagli obblighi internazionali – con particolare riferimento all’art. 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottata il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge n° 848 del 4 agosto 1955 - e dall’interpretazione dei giudici di Strasburgo.

Tra le più importanti va ricordata certamente l’introduzione dell’art. 4 bis O.P. avvenuta con la legge n° 356 del 19 luglio 1992, che convertiva l’art. 15 comma 1 del decreto legge n° 306 dell’8 giugno 1992. Detta norma fu introdotta subito dopo le stragi di mafia in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino.

Con detta norma si stabilì una presunzione di pericolosità per coloro che avevano riportato condanne per delitti di criminalità organizzata che, di fatto, impediva loro l’accesso alle misure alternative alla detenzione e imponeva di espiare interamente in carcere la condanna inflitta.

Negli ultimi anni però, anche per poter correttamente aderire al dettato normativo comunitario, quelle presunzioni di pericolosità introdotte negli anni Novanta sono state ridimensionate dagli interventi della Corte Costituzionale.

In particolare si devono analizzare due recenti pronunce della Consulta che, di fatto, hanno relativizzato la presunzione di pericolosità prevista dall’art. 4 bis O.P., vale a dire la sentenza 253 del 2019 e l’ordinanza del 15 aprile 2021 le cui motivazioni non sono ancora state depositate.

La Corte Costituzionale è quindi intervenuta sulla presunzione di pericolosità dei condannati per i delitti indicati, rendendola relativa, ossia vincibile grazie alla dimostrazione della caducazione del vincolo con la societas sceleris.

Al fine di meglio comprendere la portata innovativa della pronuncia, occorre innanzitutto fare chiarezza sull’istituto dell’ergastolo ostativo ovvero dei delitti ostativi.

L’art. 4 bis O.P. subordina alla collaborazione con la giustizia la concessione di benefici penitenziari agli autori di reati di particolare allarme sociale, quali, tra gli altri, quelli commessi per finalità di terrorismo, di eversione dell’ordine democratico, delitti associativi di stampo mafioso.

Detta norma, infatti, pone un doppio binario di concessione dei benefici penitenziari, atteso che per i soli autori dei delitti indicati è richiesta una necessaria collaborazione con la giustizia ex art. 58 ter O.P. (“coloro che … si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”), mentre per tutte le altre categorie è prevista generalmente la sola valutazione della condotta del condannato, senza l’ulteriore aggravio della collaborazione. Un trattamento differenziato per le categorie è tuttavia giustificato, nelle intenzioni del legislatore, dalla presunzione di massima pericolosità sociale del detenuto.

Ora, il testo della norma non fa esplicito riferimento ai condannati all’ergastolo; tuttavia, è chiaro che, per taluni delitti tra quelli indicati, possa essere comminata la più grave sanzione prevista dall’ordinamento. E, in tal caso, il condannato potrebbe non giovarsi della liberazione condizionale (ex art. 176 c. 3 c.p.) ove decidesse di non collaborare con la giustizia. In questo modo, il rischio che si paventa è che l’ergastolo - per questa categoria di soggetti - torni a essere una pena perpetua, lontana dai principi costituzionali di rieducazione del reo ai fini del reinserimento sociale e di uguaglianza.

Proprio con riferimento a tali postulati, nel tempo sono state sollevate numerose questioni di legittimità costituzionale: la prima in assoluto fu affrontata dalla Corte Costituzionale nella sentenza 137 del 1999 e fu stabilito che la legge 356 del 1992 non si applicava a coloro che al momento dell’entrata in vigore della predetta norma, nonostante avessero riportato condanna per reati ostativi, avevano già maturato le condizioni per poter accedere al beneficio premiale. In questa sede, tuttavia, saranno analizzate esclusivamente quelle già richiamate innanzi.

Prima di analizzare quanto affermato nella ridetta sent. 253/2019 e nell’ordinanza del 15 aprile scorso, occorre tenere a mente che già nel 2018 la Consulta si era espressa, pronunciando l’illegittimità costituzionale dell’art. 58 quater c. 4 O.P., nella parte in cui prevedeva il limite di due terzi di pena o di 26 anni (in caso di ergastolo, non riducibile per effetto della liberazione anticipata) per l’accesso ai benefici, nei confronti dei condannati per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione o di terrorismo o di eversione, che avessero causato la morte del condannato (art. 4 bis c. 1, O.P.).

Se anche la questione posta al vaglio del Giudice delle leggi non investiva propriamente l’ergastolo ostativo, l’occasione fu propizia per affermare che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa – assieme – la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società”.

Il chiaro riferimento ai principi di uguaglianza e di rieducazione del condannato, che passano attraverso la comminazione di una pena equa prima e una prognosi trattamentale in fase esecutiva poi, che miri alla reintegrazione del reo nel tessuto sociale, ha idealmente fatto da apripista alle successive pronunce del 2019 e del 2021.

A livello sovranazionale, la Corte Edu, con la pronuncia Viola c. Italia del 13 giugno 2019, ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 3 della Convenzione, con specifico riferimento all’ergastolo ostativo, ritenendo lo stesso “trattamento inumano e degradante” in quanto nega aprioristicamente la possibilità di accedere ai benefici penitenziari in assenza di un’operosa collaborazione, anche a quei detenuti che abbiano comunque seguito un percorso riabilitativo utile e fruttuoso (Marcello Viola c. Italia, ricorso n. 77633/16).

Successivamente, nell’ottobre dello stesso anno, la Corte costituzionale – pronunciandosi in materia di reati c.d. ostativi, e non di ergastolo ostativo come la Corte Edu, in quanto la questione sottoposta al suo esame dichiaratamente non riguardava la preclusione alla concessione della liberazione condizionale all’ergastolano non collaborante e che abbia già scontato i ventisei anni effettivi di carcere – si è espressa sulla legittimità della presunzione di assoluta pericolosità dei condannati per delitti di mafia (C. Cost., 23 ottobre 2019, n. 253).

Nell’occasione, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del richiamato art. 4 bis O.P. nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58 ter O.P., qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Consequenzialmente, la Corte ha altresì dichiarato la non conformità a Costituzione del c. 1 della medesima norma, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i reati ivi ricompresi, diversi dai delitti di mafia, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58 ter O.P., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Ebbene, pur non essendo la suddetta pronuncia incentrata direttamente sull’ergastolo ostativo, è possibile in essa apprezzare delle determinazioni che fanno da leva a una pur lenta rivoluzione copernicana. La Consulta infatti ha affermato che se certamente è corretto, e conforme a Costituzione, riconoscere un premio a chi decida di collaborare con la giustizia, anche dopo la condanna, non può d’altro canto ammettersi una punizione – ulteriore rispetto alla sanzione – che impedisca al detenuto non collaborante l’accesso ai benefici concedibili agli altri detenuti.

Prendendo l’abbrivio da quanto deciso dalla Corte Edu e sulla scorta delle riflessioni da ultimo esposte, la Corte, riunendosi in camera di consiglio lo scorso 15 aprile, ha quindi esaminato le questioni di legittimità, sollevate dalla Cassazione, sul regime applicabile ai soggetti condannati all’ergastolo per reati di mafia e di contesto mafioso, che non abbiano collaborato con la giustizia e abbiano chiesto l’accesso alla liberazione condizionale.

La Consulta ha pertanto riconosciuto che l’attuale disciplina è in contrasto non solo con gli artt. 3 e 27 Cost. ma altresì con l’art. 3 CEDU, atteso che preclude in modo assoluto agli ergastolani non collaboranti la possibilità di accedere alla liberazione condizionale, anche ove sia possibile dimostrarne il sicuro ravvedimento.

Torna quindi in discussione l’invincibile preclusione di pericolosità del condannato per le richiamate categorie di reati, per mezzo di una presunzione assoluta che non dovrebbe trovare cittadinanza in un ordinamento garantista, guidato non solo dalla necessità di sottoporre a pena il colpevole di delitti tanto odiosi, ma anche dal faro della possibile rieducazione sociale.

Detta decisione è certamente innovativa per il nostro ordinamento, ma bisogna precisare che l’innovazione giurisprudenziale, che ben presto potrebbe essere seguita anche da qualche novità normativa, non riconoscerà in automatico il beneficio della liberazione condizionale a tutti i condannati per delitti ostativi che abbiano espiato i 26 anni di reclusione, così come previsto dall’art. 176 c. 3 c.p.

La stessa ordinanza infatti fa riferimento ad un “ravvedimento sicuro”. Questo concetto, espresso in maniera sintetica dalla Consulta, in realtà impone, di fatto, ai Tribunali di Sorveglianza di operare una serie di valutazioni notevolmente pregnanti e approfondite prima di riconoscere, eventualmente, al condannato la misura alterativa.

Volendo fare una previsione, sulla scorta dell’attuale quadro normativo e dei principi finora espressi, non si arriverà al punto di riconoscere il beneficio al condannato così, di punto in bianco. Semmai, molto più probabilmente, come già accade per coloro che hanno riportato condanna all’ergastolo per reati non ostativi, l’eventuale beneficio sarà solo il culmine di un percorso detentivo contraddistinto dalla progressione trattamentale e caratterizzato, vista anche la sentenza 253 del 2019, dal riconoscimento di una serie di permessi premio che permetterà di constatare il comportamento del condannato all’esterno del contesto penitenziario.

La recente pronuncia certamente cambierà quelle che sono le prospettive dei condannati per reati ostativi, in maniera particolare per coloro che hanno riportato la pena massima prevista dal nostro ordinamento giuridico, ma appare ragionevole pensare che, nella sostanza, non ci saranno delle modifiche concrete per gli stessi, atteso che il criterio introdotto per l’ottenimento della misura alternativa rimane notevolmente stringente e discrezionale. Ciò specialmente ove si osservi che, almeno ad oggi, non vi sono dei criteri oggettivi in grado di stabilire con esattezza il raggiungimento del cd. ravvedimento sicuro. Questo certamente non favorirà il lavoro dei Tribunali di Sorveglianza e molto probabilmente, di fatto, permetterà l’accesso alla liberazione condizionale ad un numero limitatissimo di condannati, così come è avvenuto per i permessi premio dopo la pronuncia del 2019.

Al fine di rendere effettiva la promessa – ma non ancora attuata - innovazione, per concedere il beneficio a quei condannati che si siano particolarmente distinti nel programma rieducativo, sarebbe opportuno, forse, stabilire una serie di criteri oggettivamente valutabili. Questo non solo renderebbe maggiormente possibile l’accesso alla misura alternativa ma, allo stesso tempo, permetterebbe di attuare concretamente sia il dettato normativo dell’art. 27 della Carta Costituzionale sia gli irrinunciabili principi sovranazionali.

In ogni caso queste pronunce degli ultimi anni non possono far escludere che in futuro non troppo remoto la Corte Costituzionale possa essere chiamata a pronunciarsi anche in ordine alla possibilità di riconoscere le misure ordinarie (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà) ai condannati per reati ostativi.

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