di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Giulio Baffa)
(Cass. Pen., Sez. VI, 29 ottobre 2020, n. 37696)
“3. (…) ll Collegio osserva come a fronte delle allarmanti indicazioni contenute nelle informative di Polizia Giudiziaria, dalle quali sembra di comprendere che l’imputato (…) farebbe finanche parte dell’omonimo gruppo criminale (…), il giudice abbia fatto ricorso a mere formule di stile che non tengono in alcun conto la peculiarità della fattispecie e soprattutto non considerano le effettive finalità dell’istituto della messa alla prova quale introdotto dalla L. 28 aprile 2014, n. 67 mediante l’inserimento degli artt. da 168 bis a 168 quater c.p. e degli artt. da 464 bis a 464 novies in quello di procedura.
Come è noto, ispirato a quello anglosassone della probation, l’istituto intende offrire “ai condannati per reati di minore allarme sociale un percorso di reinserimento alternativo” e al contempo svolgere “una funzione deflattiva dei procedimenti penali in quanto è previsto che l’esito positivo (…) estingua il reato con sentenza pronunciata dal giudice” (…).
Sono dunque il minore allarme e la necessità di un reinserimento sociale dello imputato a fungere da primari termini di riferimento ai fini dell’applicabilità dello istituto, il che significa che al di là della astratta sussistenza dei presupposti normativi, costituisce onere del giudice verificare se anche in concreto esistano le condizioni di base per darvi corso.
Tanto premesso e già sulla scorta della mera imputazione, da un lato non sembra proprio che la condotta contestata all’imputato possa definirsi di minore allarme sociale, atteso che due pubblici ufficiali in servizio di istituto sono stati minacciati con un’arma da fuoco nell’esercizio delle loro funzioni e in tal modo invitati a desistere dall’assolvimento dei loro doveri, mentre dall’altro non paiono sussistere effettive esigenze di reinserimento sociale per l’imputato, che dalle citate informative di polizia risulta per contro molto ben inserito per quanto in contesti sociali devianti.
L’evidente carenza di motivazione, plasticamente evidenziata dal riferimento nel provvedimento di ammissione al contesto socio-ambientale in cui il reato è maturato, che prescinde evidentemente dalle indicazioni contenute negli atti del procedimento, si è poi inevitabilmente tradotta nell’approvazione di un programma di reinserimento che appare del tutto incongruo, sia nella sostanza che nelle modalità di esecuzione, per la personalità dell’imputato”.
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