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A proposito del referendum popolare sulla disciplina elettorale - di A. Iervolino e D. Avitabile




Nota a Corte Cost., n. 10 del 2020.


(A cura di Aniello Iervolino e Daniele Avitabile)



1 . Premessa


Con ordinanza del 20 novembre 2019, l’Ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme alle disposizioni di legge la richiesta di referendum popolare abrogativo, promosso da otto Consigli regionali (Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Liguria).

Oggetto di tale richiesta erano in particolare le due leggi del Senato e della Camera con l’obiettivo di eliminare la quota proporzionale, trasformando così il sistema elettorale interamente in un maggioritario a collegi uninominali.

Inoltre, data l’esigenza di ridisegnare in toto i collegi, il quesito investiva (come si vedrà infra, manipolandola) anche la delega conferita al Governo con la Legge n° 51/2019 per la ridefinizione dei collegi in vista di una riduzione del numero dei parlamentari.

Con la sentenza n° 10 del 2020 la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum avanzata da otto Consigli regionali, i quali avevano invocato l’abrogazione parziale di quattro “complessi normativi” (come li definisce la Corte stessa), tutti afferenti alla materia elettorale.

Proprio con l’obiettivo di modificare la vigente formula elettorale, i promotori avevano elaborato un quesito estremamente dettagliato, preordinato ad introdurre, per via referendaria, un criterio di ripartizione dei seggi del tutto maggioritario, il solo in grado di garantire, dal loro punto di vista, stabilità ed efficienza operativa all’Esecutivo. Tuttavia, in base alla giurisprudenza costituzionale sul punto, tale operazione di ritaglio normativo aveva imposto l’inclusione, nel quesito così proposto, di disposizioni normative tra loro correlate ma al contempo distinte per finalità originaria.

Tra queste, particolarmente problematico era apparso il riferimento all’art. 3 della Legge n° 51/2019.

Tale Legge, che è stata pensata per possedere una capacità applicativa “universale” (adattandosi a qualsivoglia modifica del numero dei parlamentari), è stata adottata in vista della conclusione dell’iter parlamentare di approvazione della riforma costituzionale che ha ridotto - referendum confermativo permettendo - il numero dei parlamentari, con l’intento di introdurre un criterio volto a sostituire il numero fisso di collegi uninominali (231 per la Camera e 109 per il Senato) con un rapporto espresso in frazioni numeriche: i tre ottavi (3/8) del numero totale dei seggi da ripartire devono essere assegnati in collegi uninominali.

Per far ciò, il suddetto art. 3 contiene una delega rivolta al Governo, per effetto della quale quest’ultimo sarà tenuto, entro 60 giorni dalla data di (eventuale) entrata in vigore della legge costituzionale di cui supra, a rideterminare i collegi uninominali e plurinominali in base al solo rapporto numerico prima richiamato.

La proposta referendaria, attenta a non eccedere i limiti fissati dalla giurisprudenza elaborata dalla Consulta in materia di ammissibilità dei referendum abrogativi in materia elettorale, invocava proprio l’abrogazione dei commi 1 (relativo alla condizione sospensiva cui è soggetta la delega al Governo) e 2 (in cui è fissato il dies a quo del termine di esercizio della stessa) dell’art. 3 della Legge n° 51/2019.

L’obiettivo dei promotori era, quindi, quello di sfruttare la delega succitata – in quanto non ancora esercitata - per garantire la ridefinizione dei collegi elettorali in base al nuovo sistema di ripartizione dei seggi derivante dalla pronuncia popolare, in modo tale da ottenere una normativa di risulta immediatamente applicabile e, soprattutto, oggetto di un positivo dovere di facere da parte del Governo.

Senza sottovalutare i rischi derivanti da un’eventuale inerzia di Governo e Parlamento nel dare piena e tempestiva attuazione alla volontà popolare manifestatasi in sede referendaria, il Giudice delle Leggi ha dichiarato inammissibile il quesito proposto a causa della sua “eccessiva manipolatività.


2. La decisione della Corte Costituzionale.

2.1. Il contesto normativo.


Prima di giungere al fulcro della decisione, la Consulta ha elaborato un’analisi della disciplina elettorale che i Consigli regionali hanno proposto di modificare.

In primo luogo, sono stati scandagliati il D.P.R. n° 361/1957 ed il D.Lgs. n° 533/1993, che costituiscono i Testi Unici delle leggi elettorali della Camera dei Deputati e del Senato. Detti Testi Unici sono stati recentemente modificati dalla Legge n° 165/2017 (cd. Rosatellum) e dalla L. n° 51/2019. La novella ha mutato il meccanismo di elezione di entrambi i rami del Parlamento, prevedendo un sistema misto, a prevalenza proporzionale.

Per quanto concerne la Camera dei Deputati, il territorio nazionale è diviso in 28 circoscrizioni; alcune di esse coincidenti con l’intero territorio regionale. Ogni circoscrizione è ripartita in collegi uninominali ed in uno o più collegi plurinominali.

I collegi uninominali sono 231 e vengono suddivisi in ciascuna circoscrizione in base alla popolazione (cui si aggiunge il collegio uninominale della Regione autonoma Valle d’Aosta); con tale metodo, viene eletto il candidato che ha ottenuto la maggioranza dei voti.

La restante parte viene assegnata, invece, con metodo proporzionale; i seggi vengono, dunque, distribuiti ai partiti o alle liste in proporzione ai voti ottenuti.

Nel sistema di voto proporzionale, si divide il numero dei voti validi per il numero dei seggi a disposizione, ottenendo così un “quoziente elettorale” che corrisponde ad un seggio.

Il metodo proporzionale è applicato ai collegi plurinominali, costituiti dalla aggregazione di collegi uninominali contigui; ad ogni collegio plurinominale è assegnato un numero di seggi non inferiore a 3 e non superiore ad 8.

Al Senato, invece, il territorio è ripartito in 20 circoscrizioni corrispondenti al territorio di ogni Regione.

Ogni circoscrizione regionale è ripartita in collegi uninominali ed in uno o più collegi plurinominali. I 109 collegi uninominali del territorio nazionale sono ripartiti in ciascuna circoscrizione in base della popolazione (ad essi si aggiungono 1 collegio nella Regione autonoma Valle d’Aosta e 6 collegi nella Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol). I collegi plurinominali sono costituiti, come per la Camera, dall’aggregazione del territorio di collegi uninominali contigui; diversamente dalla Camera, a ciascuno di tali collegi aggregati è assegnato, un numero di seggi non inferiore a 2 e non superiore a 8. Al totale dei seggi così assegnati si aggiungono 12 deputati e 6 senatori eletti nella circoscrizione Estero.

Il sistema elettorale così descritto è stato, poi, completato dal Governo, delegato dall’art. 3 della L. n° 165/2017, con il D.Lgs. n° 189/2017 che ha determinato e distribuito i collegi uninominali e plurinominali sul territorio italiano.

La legge n° 51/2019 reca, invece, “Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari” e, come osservato in premessa, è stata adottata a completamento della recente Legge sulla riduzione del numero dei parlamentari.

Quest’ultima è stata votata, nelle due sedute della Camera, dai due terzi dei suoi componenti; mentre, al Senato, in seconda seduta, la Legge costituzionale è stata votata solo dalla maggioranza assoluta dei componenti.

Ai sensi dell’art. 138 Cost., la revisione della Costituzione deve essere approvata da entrambe le Camere in due sedute, a distanza di tre mesi l’una dall’altra.

Nel caso in cui, nella seconda votazione, in una delle due Camere, la Legge di revisione sia approvata solo a maggioranza assoluta, viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale per consentire l’avvio dell’eventuale iter referendario (il referendum costituzionale può essere chiesto, entro tre mesi, da un quinto dei componenti di una Camera, da cinque Consiglio regionali o da cinquecentomila elettori).

Se il referendum viene effettivamente promosso, l’applicazione (o il rigetto) della Legge di revisione dipende dall’esito del referendum.

Nel caso in cui, invece, il referendum non venga promosso, la Legge viene promulgata dal Presidente della Repubblica e pubblicata nuovamente in Gazzetta Ufficiale per la sua entrata in vigore.

Rispetto alla Legge di riduzione del numero dei Parlamentari, la votazione solo a maggioranza assoluta in Senato ha comportato, il 12.10.2019, la pubblicazione in G.U. per notiziare i soggetti legittimati a proporre referendum.

Così, entro il 12.01.2020, un quinto dei membri del Senato ha depositato apposita richiesta referendaria presso la Corte di cassazione (il referendum, salvo rinvii, è fissato per il 20.09.2020) .

Come riferito in precedenza, la L. n° 51/2019 non ha apportato alcuna modifica al sistema di conversione dei voti in seggi, ma ha sostituito l’indicazione numerica dei collegi uninominali con quella a mezzo di frazioni, lasciando del tutto inalterata la proporzione tra il numero dei parlamenta rieletti nei collegi uninominali (con sistema maggioritario) e quello dei parlamentari eletti nei collegi plurinominali (con sistema proporzionale).

All’art. 3, la mentovata Legge di revisione costituzionale reca una norma di delega per la determinazione dei novellandi collegi elettorali che, pur rimanendo nella stessa proporzione quanto ai parlamentari eletti (i tre ottavi di questi ultimi nei collegi uninominali e i cinque ottavi in quelli plurinominali), a seguito dell’eventuale entrata in vigore della Legge costituzionale saranno, ovviamente, di numero inferiore e, di conseguenza, territorialmente più estesi rispetto agli attuali.

Più precisamente, la predetta disposizione recita: “[q]ualora, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sia promulgata una Legge costituzionale che modifica il numero dei componenti delle Camere di cui agli articoli 56, secondo comma, e 57, secondo comma, della Costituzione, il Governo è delegato ad adottare un decreto legislativo per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”. Il comma 2 del medesimo art. 3 dispone che “[i]l decreto legislativo di cui al comma 1 è adottato, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della Legge costituzionale di cui al medesimo comma 1”.

Fermo il contesto normativo delineato in premessa e nella prima parte di questo paragrafo, si evidenzia che le pretese abrogative dei Consigli regionali promotori sono state identiche sia per il Testo Unico delle leggi elettorali della Camera dei Deputati che di quello del Senato, essendo finalizzate a prevedere un meccanismo di assegnazione di seggi fondato sui soli collegi uninominali.

Pertanto, la richiesta referendaria ha avuto riguardo alle disposizioni e (per la maggior parte delle volte) ai frammenti di esse che facessero esplicito riferimento ai collegi plurinominali, inclusa la richiesta di abrogazione della parte interna ed esterna della scheda per la votazione.

I Consigli regionali hanno chiesto l’abrogazione parziale dell’art. 3 L. n° 51/2019 per adattare la delega al Governo per la ridefinizione dei collegi in base all’auspicata modifica del sistema elettorale all’esito (positivo) del referendum abrogativo.

La richiesta abrogazione parziale dell’art. 3 della L. n° 165/2017 è avvenuta per coordinare i principi ed i criteri direttivi in esso contenuti al detto mutamento del sistema elettorale. Nulla del D.Lgs. n° 189/2017, invece, è stato chiesto di abrogare, nonostante recasse quattro Tabelle con l’individuazione dei collegi uninominali e plurinominali di Camera e Senato.


2.2. L’inammissibilità del quesito referendario.


Compito della Corte è stato valutare che la pretesa referendaria dei Consigli regionali promotori, in primis, non inerisca a leggi previste dall’art. 75 Cost. (ndr. “tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”) o riconducibili ad esse; in secondo luogo, è stato necessario accertare che il quesito referendario potesse essere chiaro, omogeneo ed univoco.

Per quanto concerne il primo presupposto, la Corte Costituzionale ha più volte ammesso richieste referendarie che recassero un ritaglio di frammenti normativi (come sarebbe nel caso di specie), purché il referendum abrogativo non costituisca una fictio iuris, covando in seno una natura “surrettiziamente propositiva”.

Ai predetti limiti costituzionali stabiliti dall’art. 75 Cost., la Consulta ha aggiunto il divieto di sottoporre a referendum abrogativo le leggi costituzionalmente necessarie, come le leggi elettorali di organi costituzionali o di rango costituzionale, poiché la loro assenza creerebbe “un grave vulnus nell’assetto costituzionale dei poteri dello Stato”.

Diretta conseguenza di tale esclusione è che un quesito referendario che abbia ad oggetto l’abrogazione parziale di una legge elettorale - legge costituzionalmente necessaria - è ammissibile solo quando superi una “prova di resistenza”: la verifica dell’autoapplicatività della normativa residua. Questa consiste nell’ammettere il referendum abrogativo allorquando sia possibile prospettare la completa operatività degli organi parlamentari malgrado l’abrogazione delle norme oggetto del referendum e la futura inerzia del Legislatore.

Calando le suesposte premesse nel caso concreto, i Giudici di Palazzo Consulta non hanno riscontrato carenza di univocità (ovvero l’assenza di una matrice razionalmente unitaria)perché lo scopo dei Consigli regionali promotori era stato molto chiaro: prevedere per la totalità dei seggi il meccanismo elettorale maggioritario che, fino a quel momento, veniva applicato solo ai collegi uninominali.

Peraltro, non ha avuto alcun valore dirimente la circostanza che, esitato positivamente il referendum abrogativo, i TT.UU. delle leggi elettorali di Camera e Senato avrebbero ancora recato riferimenti alle “liste”ed alla “lista”, in quanto tali incongruenze possono essere agevolmente superate dagli ordinari strumenti di interpretazione.

Il problema insuperabile, secondo la Corte, è stata la modalità attraverso la quale i promotori hanno inteso giungere al mentovato risultato.

L’operazione chirurgica dei Consigli regionali è solo in parte ritenuta ammessa: se l’eliminazione di qualsiasi riferimento ai collegi plurinominali è indiscutibilmente ammissibile, la parziale abrogazione della norma di delega prevista dall’art. 3, L. n° 51/2019 (al fine di consentire la ridefinizione dei nuovi collegi uninominali) non può essere richiesta attraverso un referendum abrogativo.

Il referendum abrogativo così confezionato, pertanto, manipolerebbe surrettiziamente la norma di delega appena citata.

I promotori, infatti, tentando di sfruttare l’esistenza dell’art. 3, L. n° 51/2019, chiedendone l’abrogazione parziale, hanno implicitamente riconosciuto che le sole auspicate abrogazioni non basterebbero a produrre un nuovo sistema elettorale perché sussisterebbe “l’ineludibile necessità” di adottare un Decreto Legislativo che, in caso di esito positivo del referendum abrogativo, revisioni i collegi elettorali.

La cartina al tornasole è rappresentata dalla circostanza che, ove mai non fosse già esistita una norma di delega, questa sarebbe stata comunque indispensabile per poter completare il meccanismo elettorale disegnato dai Consigli regionali.

L’abrogazione parziale dell’art. 3, L. n° 51/2019 pensata dai promotori avrebbe ictu oculi investito i caratteri essenziali della delega originaria: si pensi che già l’oggetto della delega sarebbe stato diverso (non più “Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali e plurinominali”, ma “Delega al Governo per la determinazione dei collegi uninominali”).

La manipolazione della delega originaria è evidente perché,mutando il contesto del sistema elettorale in cui la nuova delega avrebbe dovuto operare, i principi ed i criteri direttivi sarebbero stati solo formalmente gli stessi, acquistando,sostanzialmente, una portata nuova e diversa.

A seguito dell’eventuale abrogazione, anche il dies a quo per l’esercizio della delega sarebbe risultato mutato perché la delega originaria àncora il termine per ridefinire i collegi elettorali al momento esatto dell’entrata in vigore della Legge costituzionale di modifica del numero dei parlamentari; la prospettata abrogazione totale di tale termine produrrebbe l’effetto di individuare il nuovo dies a quo nel momento in cui si produrrà l’effetto abrogativo del referendum stesso. All’evidenza, si tratterebbe di un termine del tutto nuovo e diverso.

Da ultimo, il referendum proposto ha voluto recidere“il suo legame “genetico” con la riforma costituzionale del numero dei parlamentari,rendendola, quindi, incondizionata e, pertanto, completamente sviscerata di uno dei suoi capisaldi.

A comprova dell’inammissibile manipolazione del quesito referendario vi è la considerazione che la delega, così come prefigurata dai promotori,non si sarebbe esaurita con la sua attivazione dopo l’entrata in vigore della Legge di riduzione del numero dei parlamentari, alla quale era unicamente destinata a dare attuazione. All’esito di tale ragionamento, si è evinta una mutazione (nonché una duplicazione) delle funzioni della delega originaria che ha portato la Corte Costituzionale a dichiarare l’inammissibilità della richiesta referendaria.



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