di seguito uno stralcio della pronuncia
(a cura di Rossella Bartiromo)
“Con il termine “secondary ticketing” si suole indicare la diffusione di mercati “paralleli” a quelli ufficialmente autorizzati, in cui si offrono in vendita i titoli di accesso ad eventi spettacolistici di varia natura, ad un prezzo maggiorato rispetto a quello determinato dall’organizzatore. La domanda dei mercati “secondari” è alimentata dal fatto che, nelle manifestazioni con artisti di grande richiamo, la richiesta di biglietti supera ampiamente l’offerta, determinando un rapido esaurimento degli stessi sul mercato primario.
Il fenomeno non desta preoccupazione quando il meccanismo suddetto intende semplicemente favorire lo scambio tra chi ha acquistato un biglietto per un evento al quale non può più partecipare e chi non è riuscito a trovarlo sul mercato primario. Desta invece allarme sociale l’acquisto massivo di biglietti da parte di organizzazioni, che si servono di software creati appositamente (c.d. ticketbots), che poi li rivendono a prezzi maggiorati.
Questa peculiare forma di bagarinaggio online ha ricevuto solo recentemente una specifica disciplina, attraverso i commi 545 e 546 dell’art. 1, della legge 11 dicembre 2016, n. 232.
(…)
Il legislatore, se da un lato ha chiarito che gli unici soggetti legittimati a vendere i titoli di accesso per eventi spettacolistici sono gli organizzatori degli stessi, nonché i titolari di biglietterie automatizzate da questi incaricate alla vendita, dall’altro ha avuto cura di escludere che l’illecito sia configurabile in presenza di transazioni tra utenti finali: in particolare, non è suscettibile di sanzione la vendita o qualsiasi altra forma di collocamento di titoli di accesso ad attività di spettacolo «effettuata da una persona fisica in modo occasionale, purché senza finalità commerciali».
4.‒ Ciò posto, ritiene il Collegio che vada affrontata, in ordine logico, la tesi sostenuta dalla Società con il ricorso incidentale, con cui si esclude ‒ già in termini astratti ‒ la configurabilità dell’illecito contestato.
L’appellante incidentale, in particolare, censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto la censura attraverso la quale era stata dedotta l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio per aver accertato l’illiceità di una pratica commerciale scorretta pur in assenza dei presupposti per qualificarla come aggressiva o ingannevole.
Contrariamente a quanto sostenuto dall’Autorità, avallata dal giudice di prime cure, il nostro ordinamento non consentirebbe di qualificare come “scorrette” le pratiche commerciali che non si rivelino né ingannevoli né aggressive.
Ritiene il Collegio che la tesi così sinteticamente esposta non può essere accolta.
4.1.‒ L’espressione «pratiche commerciali scorrette» designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall’art. 20 del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/CE. La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire, come si desume dal «considerando 23», un elevato livello comune di tutela dei consumatori, procedendo ad un’armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese, ivi compresa la pubblicità sleale, nei confronti dei consumatori.
Scopo della normativa è quello di ricondurre l’attività commerciale in generale entro i binari della buona fede e della correttezza. Il fondamento dell’intervento è duplice: da un lato, esso si ispira ad una rinnovata lettura della garanzia costituzionale della libertà contrattuale, la cui piena esplicazione si ritiene presupponga un contesto di piena “bilateralità”, dall’altro, in termini analisi economica, la trasparenza del mercato è idonea ad innescare un controllo decentrato sulle condotte degli operatori economici inefficienti. Le politiche di tutela della concorrenza e del consumatore sono sinergicamente orientate a promuovere il benessere dell’intero sistema economico.
Per «pratiche commerciali» ‒ assoggettate al titolo III della parte II del Codice del consumo ‒ si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente «correlati» alla «promozione, vendita o fornitura» di beni o servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all’instaurazione dei rapporti contrattuali.
Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno «scorretta», il comma 2 dell’art. 20 del Codice del consumo stabilisce in termini generali che una pratica commerciale è scorretta se «è contraria alla diligenza professionale» ed «è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori».
Nella trama normativa, tale definizione generale di pratica scorretta si scompone in due diverse categorie: le pratiche ingannevoli (di cui agli artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli artt. 24 e 25). Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. ‘liste nere’) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni ‘speciali’ di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 21 e all’art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» nonché dalla sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore».
4.2.‒ Il tema inedito posto all’attenzione del Collegio è quello di comprendere se il citato art. 20, comma 2, vada intesa come una mera clausola “ricognitiva” delle pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive ‒ rispetto alle quali la definizione generale sarebbe rilevante solo a fini interpretativi ‒ oppure integri essa stessa una “fattispecie” di illecito, dotata di autonoma portata disciplinare, cui attingere in via residuale.
Ebbene, la lettura sistematica del titolo III della Parte seconda del codice del consumo rende certi che le “pratiche commerciali scorrette” costituiscono un genus unitario di illecito, i cui elementi costitutivi sono definiti dall’art. 20, comma 2. All’interno della fattispecie generale, il legislatore ha “ritagliato” ‒ per finalità di semplificazione probatoria ‒ due sottotipi (e all’interno di ciascuno di essi, due ulteriori fattispecie presuntive) che si pongono in rapporto di specialità (per specificazione) rispetto alla prima.
A questi fini, in ordine di successione ermeneutica:
- occorre prima stabilire se la condotta contestata possa essere inquadrata all’interno delle “liste nere” (di cui agli articoli 23 e 26): in caso di risposta positiva, la pratica dovrà qualificarsi scorretta senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla «diligenza professionale» e la sua concreta attitudine «a falsare il comportamento economico del consumatore»;
- qualora la pratica non sia ricompresa in nessuna delle due fattispecie presuntive, va accertato se ricorrono gli estremi della pratica commerciale ingannevole (artt. 21 e 22) oppure aggressiva (artt. 24 e 25): in tal caso, la verifica di ingannevolezza ed aggressività integra di per sé la contrarietà alla «diligenza professionale»;
- ove i precedenti tentativi di sussunzione non risultino percorribili, non resta che ricorrere alla norma di chiusura sussidiaria di cui all’art. 20, comma 2: la mancata caratterizzazione dell’illecito in termini di ingannevolezza e aggressività, impone di accertare in concreto il grado della «specifica competenza e attenzione» che «ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti», tenuto conto delle peculiarità del caso di specie.
4.3.‒ Acclarato che era ben possibile per l’Autorità ricorrere alla definizione generale di pratica commerciale scorretta per sanzionare violazioni della diligenza professionale diverse dalla ingannevolezza e dalla aggressività, vanno fatte due ulteriori considerazioni.
In primo luogo, non osta alla configurabilità dell’illecito l’assenza di un contatto “negoziale” tra la Società ed il consumatore che ha risentito il pregiudizio finale. Nel contenuto della «diligenza professionale» (…) rientrano anche gli adempimenti organizzativi che il rivenditore deve porre in essere per contrastare o almeno contenere il fenomeno di quanti acquistano massivamente per poi rivendere sul mercato secondario.
Neppure può sostenersi, ai fini di escludere l’illecito, che il consumatore si è autonomamente e spontaneamente rivolto ai rivenditori del mercato secondario. L’ampia nozione di «decisione di natura commerciale» consente di includere tra le pratiche idonee «ad indurre un consumatore ad assumere una decisione che non avrebbe altrimenti preso», non soltanto la condotta che si riveli fondamentale nello spingere il consumatore ad accettare di concludere un contratto con il professionista, ma anche la condotta del rivenditore che abbia semplicemente posto il consumatore nella impossibilità di finalizzare l’acquisto del biglietto per assistere all’evento di suo interesse, inducendolo a soddisfare il bisogno di consumo sul mercato secondario.
5.‒ Prima di procedere alla verifica in concreto dell’illecito contestato, va sottolineata l’erroneità della tesi dell’appellante secondo cui la valutazione della diligenza professionale, cui è tenuto un professionista in uno specifico settore di riferimento, costituirebbe una valutazione tecnico-discrezionale dell’Autorità, sindacabile dal giudice amministrativo soltanto sotto il profilo della congruenza logica e della razionalità.
L’Autorità sembra invocare, per se stessa, una posizione soggettiva di intangibilità mutuata dall’apparato concettuale del “merito amministrativo”, con il corollario di un controllo giudiziale ristretto a un approccio esterno ed estrinseco.
Sennonché, tale impostazione ‒ alla luce della quale spetterebbe all’Autorità l’interpretazione e l’applicazione della norma sanzionatoria, residuando al giudice amministrativo solo la possibilità di vagliare l’esemplificazione del concetto indeterminato contenuta nel provvedimento ‒ finirebbe per frapporre una distanza tra il giudice amministrativo ed i fatti controversi che la giurisprudenza di questa Sezione ha da tempo inteso colmare (cfr. nel campo delle sanzioni antitrust, la sentenza del Consiglio di Stato n. 4990 del 2019).
Quando il fatto produttivo di effetti giuridici ‒ la fattispecie dell’illecito ‒ è descritto dalla norma mediante elementi normativi indeterminati, spetta al giudice l’opera di estrapolazione della regola dalla clausola generale. Nelle fattispecie sanzionatorie, gli elementi descrittivi del divieto sono presi in considerazione dalla norma attributiva del potere, nella dimensione oggettiva di “fatto storico” accertabile in via diretta dal giudice, e non di fatto “mediato” dall’apprezzamento dell’Autorità. Per questi motivi, il giudice non deve limitarsi a verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto, bensì deve procedere ad una compiuta e diretta disamina della fattispecie. La sussunzione delle circostanze di fatto nel perimetro di estensione logica e semantica dei concetti giuridici indeterminati è attività intellettiva ricompresa nell’interpretazione dei presupposti della fattispecie normativa, in quanto il tratto “libero” dell’apprezzamento tecnico si limita qui a riflettere esclusivamente l’opinabilità propria di talune valutazioni giuridiche, tecniche ed economiche. Ne consegue che la tutela giurisdizionale, per essere effettiva e rispettosa della garanzia della parità delle armi, deve consentire al giudice un controllo penetrante attraverso la piena e diretta verifica della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità (per quanto, in senso epistemologico, controvertibile).
Più in generale, va rimarcato che le sanzioni amministrative in senso stretto ‒ quelle che costituiscono reazione dell’ordinamento alla violazione di un precetto, ed a cui è estranea qualunque finalità ripristinatoria o risarcitoria ‒ sono inflitte nell’esercizio di un potere ontologicamente diverso dalla discrezionalità amministrativa che presuppone una ponderazione di interessi. Sul piano funzionale, si tratta infatti di un potere equivalente a quello del giudice penale, sia pure con la peculiarità di essere irrogata dall’amministrazione e, per questo motivo, capace di incidere esclusivamente su beni diversi dalla libertà personale (a cagione della riserva costituzionale di giurisdizione). Nel caso invece della funzione amministrativa in senso proprio, il provvedimento amministrativo, anche quando è fonte, per il suo destinatario, di conseguenze pregiudizievoli o afflittive, queste non sono mai lo scopo o la causa dell’esercizio del potere, bensì la conseguenza “indiretta” di un atto che ha come obiettivo principale la cura di un interesse pubblico determinato.
6.‒ Tanto premesso, è dirimente, ai fini del rigetto dell’appello principale, rimarcare il difetto di istruttoria in cui è incorsa la pubblica amministrazione.
È mancata la prova ‒ che incombeva sull’Autorità ‒ della «correlazione» tra l’attività di vendita della Società (e dei sistemi dalla stessa adottati al fine di arginare il fenomeno degli acquisti multipli) ed il comportamento dei consumatori che si assumono essere stati penalizzati.
La Società ha allegato e documentato elementi che contraddicono in radice la contestazione mossagli dall’Autorità in ordine alla mancata adozione di misure dirette a contrastare l’acquisto di biglietti in eccesso attraverso procedure automatizzate.
(…)
8.1.‒ Per completezza, va precisato che l’Autorità ha correttamente segnalato l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui sembra adombrare che sia necessario provare, ai fini dell’accertamento di una pratica commerciale scorretta, l’esistenza di un vantaggio economico del professionista e di un pregiudizio concreto per il consumatore. Ma si tratta di un rilievo che non ha alcuna ripercussione sulla statuizione di annullamento del provvedimento impugnato che si fonda, come si è visto, sull’anzidetto difetto di istruttoria”
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