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Luci e ombre del “DDL ZAN”

Aggiornamento: 8 giu 2021



Il trasferimento del dibattito sul “DDL Zan” nei social network ha inevitabilmente banalizzato le problematiche sottese, irragionevolmente circoscritte, con platee di favorevoli e contrari, all’unico quesito riguardante la promozione dei diritti e delle libertà di espressione dell’individuo.

A scanso di equivoci, lo precisiamo subito: così posta, la questione non può che trovare il più ampio consenso. D’altronde è la stessa Costituzione (artt. 2-3) ad imporre alla Repubblica di promuovere ogni possibilità di libera espressione e sviluppo della persona, rimuovendo gli ostacoli, anche culturali, che dovessero frapporsi. In aggiunta, il pluralismo che fonda le moderne democrazie postula l’arricchimento che deriva dalla convivenza di idee, religioni, culture e orientamenti sessuali.

Differente problema, da approfondire, è quello se in Italia ci sia bisogno di promuovere la cultura della tolleranza e del rispetto.

Anche in questo caso, seppur con maggiore approssimazione, la risposta sembra essere positiva, guardando agli ultimi casi di cronaca che evidenziano un deficit culturale non più ammissibile.

Molto più complesso – e per ovvie ragioni inesplorato nel dibattito social, dove molto spesso la riflessione deve lasciare spazio allo slogan ‘acchiappa’ like – è la possibilità che il ruolo di promozione dei suddetti valori possa essere affidato al diritto penale.

Come noto, incidendo con la pena detentiva su valori di primaria rilevanza costituzionale, come la libertà personale, il diritto penale deve intervenire in maniera puntiforme e residuale, proteggendo l’interesse in gioco contro le aggressioni più repellenti e dunque meno tollerabili.

In altre parole, la funzione di promozione dei diritti deve essere rimessa a interventi di diversa natura, in questo caso primariamente culturali, dovendo invece il diritto penale affiancarsi quale ultimo avamposto contro le aggressioni che raggiungono quel grado di offensività tale da renderle intollerabili.

Come avrete compreso, se, dunque, in teoria, il diritto penale può concorrere a proteggere determinati interessi, la questione si sposta sul metodo, ossia sulle modalità dell’intervento penale che deve rispettare i canoni di frammentarietà, necessaria offensività ed estrema ratio. È sotto questa angolazione che vanno valutati gli artt. 2, 3 e 4 del “DDL ZAN” i quali introducono due nuovi reati per chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità e per chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza fondati sulle medesime ragioni.

La maggiore criticità riguarda la tecnica redazionale, la quale lascia eccessivo spazio alla creatività giurisprudenziale nel perimetrare l’area dell’illecito penale, individuando ciò che sia “atto discriminatorio” e ciò che sia invece “libera espressione di convincimenti” (art. 4 del DDL), peraltro già tutelata dalla Costituzione all’art. 21, senza dunque che il disegno di legge aggiunga o tolga significato al principio di carattere generale.

Norme con deficit di determinatezza e prevedibilità rischiano infatti di creare un pericoloso cortocircuito, come peraltro è già capitato in tema di responsabilità colposa dei sanitari e con l’abuso d’ufficio per i pubblici funzionari.

In quei casi, infatti, non tanto la paura della sentenza di condanna, quanto quella per l’apertura di un procedimento penale per accertare, con durata non sempre ragionevole, l’abuso d’ufficio o le ipotesi di colpa medica, hanno generato i noti fenomeni della “medicina difensiva” e “amministrazione difensiva”.

Detto altrimenti, il personale medico sanitario preferiva non intervenire o intervenire solo dopo aver adottato forme estreme di cautela per la paura di essere poi denunciato e dover percorrere le vie anguste del procedimento penale in attesa che il giudizio determini lo status di innocente o colpevole (sempre che non giunga prima la sommaria decisione del processo mediatico).

Lo stesso è capitato con la burocrazia difensiva, allorché pubblici funzionari rallentavano l’iter decisionale o appesantivano le procedure burocratiche per la paura di essere accusati in seguito di aver violato qualche regola e rispondere di abuso d’ufficio. Con alcune necessarie approssimazioni, lo stesso rischio potrebbe concretizzarsi con il “DDL Zan”, il quale, nei termini che si diranno, può paradossalmente provocare un approccio discriminatorio “difensivo”.

Immaginiamo il datore di lavoro che, dovendo scegliere tra due candidati per un’unica posizione lavorativa, consideri che uno dei due potrà, in caso di licenziamento, demansionamento o trasferimento, denunciarlo ritenendo quel provvedimento un “atto discriminatorio” nei suoi confronti. Attenzione: qui il punto non è se poi quel provvedimento porterà ad una sentenza di condanna, bensì se, nella vaghezza della definizione legislativa della fattispecie, sia in grado di attivare un procedimento penale per l’accertamento dell’asserita discriminazione, con tutte le conseguenze sociali e reputazionali che ne conseguono.

Bene, dinanzi a tale rischio, secondo voi, cosa farà il datore di lavoro?

Non è escluso che sarà tentato di cautelarsi preventivamente, affidando la posizione lavorativa a colui che non potrà utilizzare quel tipo di j’accuse nei suoi confronti, discriminando, di fatto e in ottica difensiva, per non ‘correre il rischio’ di essere accusato di quell’odioso delitto.

Quello appena espresso è volutamente un caso estremo (forse di scuola), che però vuol rendere evidente una considerazione. Anziché introdurre un reato dai contorni ‘evanescenti’, come quello che sanziona gli “atti discriminatori”, sarebbe maggiormente aderente al ruolo che il diritto penale può e deve ricoprire l’introduzione di una circostanza aggravante per condotte già costituenti specifici reati (minaccia, violenza privata, percosse, lesioni, diffamazione etc…), laddove la matrice di tali fatti sia di natura discriminatoria in ragione dell’orientamento sessuale, del sesso, del genere etc…

Si tratterebbe di un intervento che rafforzerebbe ragionevolmente la tutela penale della libera manifestazione della propria identità, attenuando il rischio delle anzidette controindicazioni, stante la definizione molto più puntuale e pregnante delle fattispecie che attiveranno l’aggravamento di pena.


Avv. Fabio Coppola, PhD

Presidente di Scuola Giuridica Salernitana



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