(A cura di Luigia Sica)
Già con sentenza 4914/2016, la Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, precisava quali fossero i presupposti per il c.d. danno da illegittima precarizzazione, nella misura in cui l’amministrazione abusasse della forma del contratto a tempo determinato.
Invero, come disciplinato dal secondo comma dell'art. 36 del d.lgs. n.165/2001 “per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti”.
Al riguardo la Cassazione, nella pronuncia sopracitata, chiariva che, in riferimento alle ipotesi nelle quali la p.a. abusasse della forma del contratto a tempo determinato, ove fosse esclusa la possibilità di procedere alla stabilizzazione del rapporto e dunque preclusa la trasformazione del rapporto di lavoro precario in un rapporto a tempo indeterminato, il dipendente vittima della illegittima attività della p.a. potesse esclusivamente ottenere il risarcimento del danno (comma 5 dell'art. 36 del d.lgs. 165/2001) con esonero dall'onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all'art.32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n.183, e quindi nella misura pari ad un'indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
In quella occasione la Suprema Corte riprendendo il contenuto della Direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999 riconosceva il danno da illegittima precarizzazione, configurabile quale perdita di "chance" di un'occupazione alternativa migliore; se ne evidenziava, in aggiunta, la connotazione legittimante ai fini della richiesta dell'ulteriore risarcimento del danno con onere della prova di quel danno a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c.
Sulla conformità della normativa interna al diritto derivato non vi è stata uniformità di orientamenti. In particolare, relativamente ai limiti di tutela previsti dal comma 5 dell'art. 36 del d.lgs. 165/2001, dai quali emerge il divieto di stabilizzazione del rapporto, ovvero la conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
L’assenza di contrasto è stata tuttavia confermata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea e dalla Corte Costituzionale, la cui giurisprudenza si è posta nel senso di riconoscere la legittimità delle disposizioni nazionali. Con la recente decisione pubblicata il 9 giugno 2020 n. 10999/2020 la Suprema Corte di Cassazione ha nuovamente affrontato il tema del danno da precarizzazione, determinandone più precisamente le caratteristiche ed evidenziando, quale aspetto centrale, il nesso con i diritti fondamentali.
La condizione di precarietà porta con sé una solida incertezza lavorativa fortemente incisiva nella sfera del singolo individuo ed in particolare lesiva della dignità personale (art. 2).
La Cassazione, dunque, piuttosto che porre l’attenzione sulla eventualità di un pregiudizio subito dalla normativa europea, quale conseguenza della violazione delle norme sovranazionali da parte del diritto interno, si sofferma sulla compromissione dei diritti per i quali dette norme sono poste a garanzia riconoscendo una tutela in via risarcitoria per la indebita precarizzazione.
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