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Rettifica della graduatoria di un concorso pubblico (Cons. St., sez. II, 4 giugno 2020, n. 3537)

di seguito uno stralcio della pronuncia

(a cura di Virginia Galasso)

"Il provvedimento di rettifica della graduatoria di un concorso pubblico ha natura di atto di autotutela (cfr. T.A.R. Lazio – Roma, 13 dicembre 2010, n. 36323) e dunque ne è corretta la qualificazione come “di secondo grado” in quanto va ad incidere su un sottostante provvedimento.

Esso, tuttavia, si caratterizza per il suo fondarsi su un errore che non attiene all’accertamento dei presupposti dell’agire dell’amministrazione, all’interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie, ovvero all’esercizio dell’eventuale discrezionalità; bensì consiste nella mera errata trasposizione nel provvedimento della volontà dell’amministrazione, per come risultante dallo stesso atto. Dati per presupposti, infatti, in quanto predeterminati dal bando, i criteri di valutazione dei titoli, l’Agenzia ne ha sbagliato la traduzione in punti, con ciò alterando l’ordine della graduatoria basata esclusivamente su tali conteggi. In presenza dell’allegazione di un errore materiale, nel senso ora indicato, ovvero in caso di sua autonoma individuazione, non poteva dunque esimersi dall’obbligo di accertare nel merito se effettivamente l’errore dedotto fosse riscontrabile ovvero comunque dal correggerlo, una volta rilevato.

Tale obbligo discende, in particolare, dal fondamentale canone di buona fede, cui è informato l’ordinamento giuridico e al quale devono essere improntati non solo i rapporti tra i consociati – tenuti, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà – ma anche e soprattutto la pubblica amministrazione, cui l’art. 97 della Costituzione impone di agire con imparzialità e in ossequio al principio del buon andamento.

D’altro canto, la mera correzione di errori materiali non implica, per sua natura, alcuna ponderazione di interessi, non essendo astrattamente configurabile un’esigenza pubblica alla conservazione di un atto a contenuto errato (sul punto cfr. T.A.R. Lazio, sez. II, 5 marzo 2020, n. 2990).

I principi in questione sono a tal punto immanenti all’ordinamento giuridico che il legislatore impone persino al giudice di intervenire sui propri provvedimenti in presenza di un’istanza di correzione di errore materiale, senza che ciò determini alcuna violazione del divieto del ne bis in idem (cfr., per il processo amministrativo, l’art. 86 c.p.a.). Mutuando peraltro le risultanze giurisprudenziali cristallizzatesi proprio in ambito giudiziario, può affermarsi che sussistono gli estremi di un errore materiale quando ci si trovi di fronte ad «una inesattezza o svista accidentale rilevando una discrepanza tra la volontà del giudicante e la sua rappresentazione, chiaramente riconoscibile da chiunque e che è rilevabile dal contesto stesso dell’atto» (Cons. Stato, sez. III, 5 agosto 2011, n. 4695).

(…) La natura doverosa della rettifica, secondo quanto sopra chiarito, impone peraltro solo che la motivazione dia conto dell'errore di fatto commesso (T.A.R. Calabria, sez. II, 9 maggio 2014, n. 699) (…) 11. Inquadrata dunque la rettifica che sia effettivamente tale nell’ambito di quei particolari provvedimenti di secondo grado connotati dall’avere tipicamente ad oggetto l’eliminazione di un errore materiale, gli eventuali vizi formali e/o procedurali dai quali essa risulti affetta non possono che ricadere nel paradigma automaticamente conformativo, anziché caducatorio, declinato nel primo alinea del comma 2 dell’art. 21 octies della l. n. 241/1990, senza che sia richiesta alcuna allegazione aggiuntiva da parte dell’Amministrazione procedente. La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha al riguardo più volte evidenziato come l’inosservanza dell’obbligo di procedere all’avviso di avvio del procedimento amministrativo non determina l’annullamento dell’atto adottato laddove, secondo quanto previsto dal predetto art. 21 octies, il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato in concreto (ex plurimis, Cons. Stato, VI, 28 marzo 2019, n. 2064, nonché, con specifico riferimento ad un caso paradigmatico di atto destinato ad incidere negativamente nella sfera giuridica del destinatario, quale l’ordine di demolizione di un abuso edilizio, e tuttavia a contenuto necessitato, sez. IV, 26 maggio 2020, n. 3330).

(…) Il compito imposto ad un’amministrazione dall’art. 21 bis, comma 2, della l. n. 241/1990, per salvare dall’annullamento il provvedimento, è dunque quello di dimostrare che anche se il privato pretermesso avesse partecipato al procedimento allegando fatti e argomenti, tale partecipazione non sarebbe stata significativa in quanto non avrebbe ragionevolmente condotto ad una decisione diversa. Non potendosi tuttavia certo pretendere che essa prevenga qualsivoglia allegazione e argomentazione che sarebbe potuta provenire dal ricorrente per dimostrarne l’irrilevanza, la prova che il provvedimento sarebbe stato diverso non può che essere fornita in relazione ai fatti e agli argomenti che il privato lamenta non essere stati presi in considerazione a causa della sua mancata partecipazione. In concreto, quindi, è quest’ultimo che deve circoscrivere in qualche modo la valutazione dell’amministrazione, portando in giudizio le argomentazioni che avrebbe veicolato nel procedimento ove gliene fosse stata data l’opportunità, così da consentire alla controparte di dimostrare, ove possibile, la legittimità sostanziale del provvedimento, ragionevole e accettabile nonostante le prospettazioni di parte avversa al punto da comportare da parte del giudice la valutazione in concreto che la riedizione del potere che conseguirebbe all’annullamento dell’atto, pur rispettosa delle omesse garanzie procedurali, si rivelerebbe comunque inutile in quanto porterebbe allo stesso identico risultato”.


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